Il Ferrobedò è uno spazio culturale polivalente nello storico quartiere di Brera, in via Moscova 40.
Ha mutuato i propri locali da quelli della storica galleria d’arte Spotorno, attiva nel dopoguerra, fino agli anni Cinquanta: una galleria atipica, non commerciale, fondata dalla scultrice Enrica Spotorno per far conoscere i giovani artisti (ma accanto a loro vi avevano esposto, fra gli altri, Felice Casorati, Arturo Martini, Marino Marini e Carlo Corsi). Deve il suo nome al titolo che Pier Paolo Pasolini avrebbe voluto dare al suo primo romanzo, Ragazzi di vita, uscito nel 1955. «Ferrobedò» è la storpiatura romanesca, dialettal-mitologica, del nome della ditta Ferro-Beton: che lavorava metalli e cementi e aveva un deposito tra Monteverde Vecchio e Monteverde Nuovo, presso la borgata Donna Olimpia, dove si svolgono molte delle vicende narrate nel romanzo.
Se Roma è stata la «città di Dio», per Pasolini (quella in cui è arrivato – in fuga dal Friuli di sua madre e dalla Bologna di suo padre – nell’Anno Santo del ’50), anche Milano fa parte della sua geografia artistica: se è vero che nel ’59, nel pieno della sua tumultuosa stagione di sceneggiatore, scrisse La Nebbiosa: pesantemente rimaneggiata nel film che ne venne tratto quattro anni dopo, Milano nera. Dopo la sua morte la sceneggiatura sarà però pubblicata (nel ’95 su rivista, e nel 2013 in volume dal Saggiatore; quattro anni dopo è stata anche messa in scena al Teatro Franco Parenti), ed è un ritratto mitologico – come segnala la maiuscola allegorica – di una città che è l’antitesi perfetta della Roma di sole, e di morte, che splende nel bianco e nero dei suoi primi film da regista. A colori invece (ma programmaticamente stinti) è invece, nel ’68, la Milano di Teorema: a sua volta, però, ipostasi mitico-allegorica di una globalizzazione capitalistica che non si chiama ancora così, ma Pasolini descrive già tale: e proprio per questo tanto più vi fa effetto l’arrivo dell’Ospite (Terence Stamp, nel film) che simboleggia l’irruzione del Sacro e dell’Osceno in un sistema di (pseudo)valori che si ostina a ignorarli, e dunque ne verrà travolto.
All’eterna antinomia fra Milano e Roma Pasolini aveva dedicato un curioso scritto su «Paese Sera» alla fine del ’61 (rispondendo a un’inchiesta di Adele Cambria). Se la Roma «pre-cristiana: stoica o epicurea» che vi disegna Pasolini, paradossalmente intatta dalla corruzione in quanto «mai stata moralmente e civicamente pura», non stupisce troppo il lettore dei romanzi “romani” o lo spettatore di Accattone e Mamma Roma, più inedita è l’immagine di Milano: «una cittadina di provincia» (Pasolini la paragona a Cremona, che conosceva bene) mostruosamente cresciuta in pochi decenni («come certi ragazzini che hanno una disfunzione a certe ghiandole: enormi e informi»), che delle cittadine di provincia ha mantenuto il moralismo «controriformistico», anzi direttamente «biblico, catastrofico», da «Valle di Giosafat», «con una serietà che è un incubo, un senso pedagogico che è una tortura». Conclude Pasolini di essere fatto, «in fondo, come i milanesi»: sicché, sorride, «vive meglio a Roma».
Abbiamo scelto Pasolini come faro ma non parleremo solo di lui. Al Ferrobedò si terranno presentazioni di libri, mostre e proiezioni cinematografiche: coinvolgendo artisti e studiosi, cultori e appassionati italiani e stranieri. L’inaugurazione sarà il 2 novembre con una mostra fotografica a cura di Alessandro Malavasi, che documenta due scene di Salò assenti nella versione definitiva della pellicola e verrà presentata da Roberto Chiesi, curatore del Fondo Pasolini presso la Cineteca di Bologna (che ha organizzato in quest’annata centenaria, con Marco Antonio Bazzocchi e Gianluca Farinelli, la grande mostra Folgorazioni figurative). Sono previsti interventi di Giorgia Bruni, sulle traversie di censura incontrate dal film, e di Luca Scarlini, che il 14 novembre terrà la conferenza Viaggio dentro la mente di Sade. Itinerari pasoliniani in provincia di Mantova e curerà, dal 3 dicembre, una mostra fotografica sugli affreschi realizzati da Dante Ferretti nell’ex Villa Riesenfeldt, ora Villa Bergamaschi di Pontemerlano, in provincia di Mantova. Nelle sale e nei corridoi della villa sono state girate molte scene degli interni della villa di Salò: tanto quelle ambientate nel salone delle cene che le indimenticabili processioni lungo lo scalone della villa, gli intermezzi nelle camere delle Narratrici e i dialoghi tra i carnefici nel salottino ribattezzato “stanza Léger”, dove Ferretti concentrò i molti riferimenti del film alle avanguardie pittoriche del Novecento. Legato alle avanguardie vecchie e nuove da sentimenti come minimo ambivalenti, Pasolini fa della sua Villa degli orrori il più elegante, algido e micidiale dei musei d’arte contemporanea. Verrà a illustrarcelo entro la fine dell’anno Andrea Cortellessa, che da tempo lavora intorno a Salò come film d’avanguardia che vuole essere il più implacabile atto d’accusa contro il “fascismo dell’avanguardia”. La presenza di Silvia De Laude, che ha collaborato con Walter Siti all’edizione delle opere di Pasolini nella collana mondadoriana dei “Meridiani”, i dieci volumi usciti dal 1998 al 2003, sarà costante negli spazi del centro.
Prendendo il nome da un luogo che può suonare tuttora abbastanza misterioso (ma noi abbiamo accettato la sua sfida, e lo spazio sarà un sismografo di quello che accade intorno a noi), il Ferrobedò vuole guardare al mondo. Vuole di fatti costruire un ponte ideale fra i diversi luoghi della vita e dell’opera di Pasolini e il mondo che lui non ha mai smesso di attraversare. Un’opera ponte che pone le proprie fondamenta sui suoi luoghi, sparsi nell’«umile Italia» tanto amata da Pasolini, che si “espande” nei tanti Sud del mondo. Luoghi e sopralluoghi, sempre, quelli di Pasolini: che a quest’ultimo termine, comune nel gergo dell’industria cinematografica, associava un sovrasenso simbolico. Perché ogni «qui», per lui, era sempre e contemporaneamente un «altrove»: uno spazio dell’immaginazione. Questo a sua volta vuol essere il Ferrobedò.